Dall’assassino di Rozzano a Lytton Strachey Spettacolarizzare la morte ci porta a sopravvalutarla quando arriva

Le parole dell’assassino di Rozzano – “quando ho scoperto che era morto, non è stato un gran che” – ricordano quelle pronunziate da Lytton Strachey negli ultimi istanti di vita: “Se questa è la morte, allora non è un gran che” (nell’originale, “I don’t think much of it”). Di ultime parole c’è una fiorente antologia, dall’enigmatico “Più luce” di Goethe all’“Armeno moro guarito” di Petrolini, passando per il mitologico “Me ne vado, ma si può dire anche me ne vo” del lessicografo Basilio Puoti o per l’“Es ist gut” di Kant, che i manuali traducevano con un solenne “È cosa buona”, ma che credo suonasse più come un “vabbe’”. Le ultime parole di Lytton Strachey hanno a mio avviso il pregio di spostare il baricentro dell’attenzione: se le altre citazioni servivano a eternare in extremis una caratteristica del parlante (l’ambizione, l’ironia, l’erudizione, lo stoicismo), dire che la morte non è un gran che significa concentrarsi sulla sua miserevole portata fisiologica, un po’ ripugnante e molto ingombrante, finale giocoforza deludente se comparato a qualsiasi vita.
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