L’intellettuale e la corte il prezzo di innovare all’ombra del potere

C’era una volta il congresso di partito: rito in bianco e nero anche se a colori. Un teatro spoglio, un sipario scuro. Un manifesto sotto al podio e una bandiera col simbolo sul tavolo dei relatori. Blu o bianca per i democristiani. Rossa per socialisti e comunisti. Poi, uno slogan, lungo e complesso, su uno striscione. “Nuovi orizzonti. L’unità per la svolta attraverso la gradualità“. Alchimie di una politica che alla fine degli anni Settanta era improvvisamente lontana dai tempi. Ci era voluto un artista, di quei flaneur sperimentatori che giravano a Brera, fra caffè e accademia, uno che non aveva paura di giocare con il kitsch, con i neon e con gli schermi televisivi, per spazzare via dal palco dei comitati centrali socialisti la falce e il martello, ma soprattutto la compassata comunicazione politica dei trent’anni precedenti.
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