Il paradosso della sopravvivenza di Israele e l’ignoranza tutta intorno

«Ciò che dà un senso alla vita, lo dà anche alla morte». Non so perché ma questa frase di Antoine de SaintExupéry, il poeta del Petit Prince, mi ha sempre richiamato alla mente le immagini di Israele. Un Paese nato sul mistero della morte collettiva, cresciuto nella benedizione quotidiana nella vita e costretto a confrontarsi costantemente con l’incubo della morte. Non sono un profeta né è mia intenzione convincere nessuno, ma dei tanti giorni trascorsi in Israele, anche come inviato speciale del giornale per il quale ho lavorato per oltre vent’anni, porto con me l’esperienza di una vita vissuta, di incontri, di confessioni talora aspre, talora incomprensibili per chi trascorre la sua vita nel ventre molle di un’Europa ormai lontana da qualsiasi valore basilare. Parole come vita, acqua, famiglia, cielo, felicità sono diventate per noi slogan obnubilati dagli shopping center, dalla cultura woke che fa chic, dalla ricerca di un domani dimenticando l’oggi e calpestando il passato.
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