La città proibita di Mainetti è proprio quel cinema di cui abbiamo bisogno ora

Gabriele Mainetti non è mai stato un regista banale. Fin dai suoi primi cortometraggi come Basette, dove omaggia il manga Lupin III o Tiger Boy, palesemente ispirato a l’uomo tigre, il regista romano ha mostrato una grandissima propensione verso un tipo di cinema pop e pulp, basato su un bagaglio molto vicino ad un certo tipo di cultura giovane e, per certi versi, nerd. E se poi il tuo film di esordio si chiama Lo Chiamavano Jeeg Robot, non puoi che essere sotto lo sguardo di tutti. O almeno sotto l’occhio diffidente di che pensa che il cinema italiano debba e possa solo ristagnare nel melò e nella commedia. E La città proibita, terzo lungometraggio di Mainetti arrivato dopo Freaks Out, è l’ennesima dimostrazione di come in Italia, se si vuole, il cinema di genere si può ancora fare. Non è morto, è solo sepolto.
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