Fenomenologia del poeta a tradimento

Conosciamo tutti, nevvero, il poeta a tradimento: si tratta del collega, dell’amico, del parente che, quando meno ce l’aspettiamo, rifila una copia del proprio volumetto di versi, magari autopubblicato, rivelandoci un’attività di cui non sospettavamo l’esistenza o che, quanto meno, ci auguravamo restasse clandestina. Benché di solito il poeta a tradimento sia un brav’uomo, sovente incensurato, all’atto della consegna del libro vacilla la concezione stessa che abbiamo di lui: la poesia mette infatti a nudo una parte intima dell’anima che, come tale, l’autore non mostra alla luce del giorno, in famiglia o in ufficio, ma che non ha remore a spiattellare sulla pagina; crea una spiazzante sovrapposizione fra la sua identità nota e un io lirico tutt’a un tratto scatenato. Non di rado, del resto, il poeta a tradimento è convinto che fare poesia significhi andare spesso a capo – in ciò non dissimile da tanti sedicenti autori convinti che lo scrivere coincida col battere a macchina – ed esprimere concetti vaghi compulsando il dizionario alla ricerca di sinonimi aulici.
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