Roy Chen è tanto bravo che non avrebbe bisogno degli eccessi che propone

Roy Chen è uno di quegli scrittori del tipo: avercene. Avercene di così generosi narrativamente. Avercene di così spigliati nel raccontare il presente. Avercene di così profondi nell’intuizione e nella costruzione delle storie. “Il grande frastuono” (Giuntina, pp. 274, euro 20) non fa eccezione. Avercene: è generoso, spigliato e profondo, e ci racconta tre donne – la giovane Gabriela col suo violoncello, la quarantenne Noa con la sua irrefrenabile chiacchiera, la nonna Tzipora e il suo orecchio, in un certo senso, assoluto – alle prese con la loro giornata joyciana. Sì, James Joyce aleggia: la nonna ne fu la prima traduttrice e, quando lavorava, imponeva alla figlia Noa di tacere e azzerarsi, affinché le riuscisse di “ascoltare” la sua voce irlandese per poterla tradurre in ebraico (“scorge una copia consunta di ‘Finnegans Wake’, il libro che è stato la sua unica Bibbia per anni”); e aleggia perché ciascuna di loro vive la propria Odissea di ventiquattro ore attraverso un flusso di pensiero che consegna al lettore la forma che le loro parole (silenziose o borbottate al punto da scatenare equivoci) danno alla realtà.
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