La censura trumpiana funziona perché sembra una forma di ribellione

Tra le retoriche più odiose del trumpismo c’è quella sul free speech. Nell’ultimo decennio, Donald Trump e i suoi fedelissimi (così come i loro emuli europei) si sono posti come i campioni della libertà di pensiero, gli alfieri unici della ribellione alla censura. Tutto inizia nel 2016, sulla scia delle culture wars che hanno caratterizzato quella fatidica campagna presidenziale, e culmina nel periodo della pandemia, quando il progressismo esasperato della sinistra universitaria americana inizia a mettere all’indice romanzi, tenta di impartire le proprie logiche di bolla sul linguaggio comune e si rende protagonista di azioni tanto eclatanti quanto ridicole (la lotta alle statue). Poi Trump torna alla Casa Bianca, e il campione del libertarismo spicciolo – su carta, antagonista del famigerato woke – inizia a censurare i libri reputati sovversivi, impone il linguaggio Maga nei documenti ufficiali e dà il via a una serie di atti teatrali per annunciare la liberazione dal politicamente corretto (l’abbattimento del murale Black Lives Matter a Washington D.
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