La profezia del Grande Gatsby e la solitudine dell’uomo d’oggi
Domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia e un bel mattino. Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». È la frase che riecheggia, il verso intinto nell’amarezza che fuoriesce dal romanzo, portandosi dietro tutto il disincanto e la disillusione di Jay Gatsby. Solo e singolo, “quel singolo” kierkegaardiano, a testimoniare l’unicità imprescindibile dell’esistenza umana, la sola dotata di senso in un mondo che non presenta più alcun ordine prestabilito e si avvia, lentamente ma inesorabilmente, verso la «totale inconsapevolezza dell’apocalisse che si prepara». Il riferimento è alla fine di un’epoca, quella dei “Roaring Twenties”, i ruggenti anni ’20, l’età dell'oro del sogno americano, quella ventata inarrestabile di ottimismo e risveglio culturale, che covava però al suo interno pericolose zone d’ombra, che si sarebbero poi estese e riversate sull’Europa.
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